
L’arte non sempre è commerciabile. La bellezza di un’opera la si può constatare quando la si illumina con la propria sensibilità, diversamente resterà incompresa e di conseguenza non godrà della memorabilità donata dal successo. Riuscire a creare un’opera d’arte senza aver paura di quanto essa venga compresa non è un’impresa facile.
Storicamente i primi a provare un’operazione simile furono i surrealisti, corrente artistica che vede come rappresentanti artisti come Salvador Dalì ad esempio. Riuscire a far parlare di sé attraverso delle opere che esprimono unicamente il concetto di “sé” non è una cosa semplice. Per fare un esempio pratico, se disegno una canestra di frutta con una precisione sbalorditiva (come fece Caravaggio), le persone tenderanno ad apprezzare l’opera per la sua vicinanza alla realtà.
Ma cosa succede quando rappresento un sogno o un’immaginario? Prima di essere apprezzato l’artista deve avere la fortuna di esser compreso.
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Questo potrebbe essere un ottimo motivo per spiegare come un’opera d’arte nata dalla mente di due artisti celebri, non abbia mai avuto il successo che merita tra il pubblico, restando sempre quel prodotto di nicchia che di fatto però è capace di raccontare il mondo ben oltre la nicchia in qui viene delimitato.
Si chiama Destino ed è un cortometraggio realizzato da Salvador Dalì in collaborazione con Walt Disney

Il cortometraggio dura meno di 10 minuti ma il suo linguaggio onirico e nascosto tra simbolismi e rappresentazioni lo rende un’opera che nell’esser compresa risulta molto più “lunga”. Si racconta la difficoltà tra uomo e donna di comprendersi, di unirsi, di annullarsi per l’altro sesso e allo stesso tempo fortificarsi.
Destino è un’opera nata negli anni 40 e ultimata (portandola di conseguenza sul grande schermo) solo nel 2003. Questo perché sembra che Dalì fosse un vulcano di idee irrefrenabile a tal punto da non riuscire mai ad arrivare ad una conclusione nello story board dell’opera. Un’altra teoria colpevolizza la guerra come elemento distraente nel completamento dell’opera. Di fatto la seconda spiegazione è quella più plausibile visto lo sconvolgimento messo in atto dalla seconda guerra mondiale.

Nei sei minuti che raccontano Destino, accompagnato da una vecchia canzone spagnola titolata anch’essa Destino, si può godere del viaggio onirico di una donna che scopre le proprie potenzialità, la propria identità nel mondo oltre alla dimensione donatale dalla condizione sessuale che la natura le ha donato. È una donna libera, forte e di gran lunga più capace dell’uomo nel districarsi tra gli scenari del cortometraggio.
In Destino la donna è libertà, come un soffione che si libra col vento alla scoperta del mondo. L’uomo è prigioniero.
Che sia per la tendenza alle vessazioni carnali o per la comune idea di superficialità d’animo, l’uomo in Destino si libera dalla pietra restando comunque immerso nei suoi limiti. Più che una liberazione questa può essere interpretata come una sorta di tortura: la consapevolezza dell’impossibilità, dimostrata in atto pratico.

Hai già visto l’artista che trasforma le principesse Disney in betoniere?
Destino è un’opera d’arte di 6 minuti. Non è chiaramente interpretabile e proprio per questo motivo diventa una fonte di ispirazione e comunicazione da cui attingere continuamente nuove visioni, opinioni o interpretazioni. Destino è quel cartone animato che non ha mai avuto il successo che merita perché, nonostante gli autori celebri, non ti da la possibilità di esser criticabile. Destino non è che piaccia o non piaccia, Destino è tale e non si veste di banalità per paura di non esser compreso.
Godetevelo.
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