Accade in Corea del Sud e sembra che l’iniziativa oltre a funzionare possa essere presto esportata all’estero.
Per combattere il fenomeno dei suicidi sempre più numerosi, in Corea del Sud, un’agenzia di pompe funebri ha proposto a diverse aziende locali di creare una specie di corso che funzioni come una terapia d’urto per i propri dipendenti.
L’obbiettivo è quello di scoraggiarli da suicidarsi.
In Corea del Sud il tasso di suicidi è molto alto a causa dello stress creato dallo stile di vita e dalla continua richiesta da parte delle aziende (e dell’economia nazionale principalmente) di efficenza e lavoro. In poche parole si ammazzano talmente tanto di lavoro che alla fine invece di licenziarsi e andare a vivere in un paese più “permissivo” sotto questo punto di vista, scelgono di suicidarsi direttamente.

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La situazione è molto delicata e non è per niente da prendere alla leggera, così, oltre ad alcune iniziative volte a rendere la giornata più leggera concedendo più tempo libero, Jeong Yong-mun (un ex direttore di un’importante azienda di pompe funebri) ha deciso di provare a illustrare alle persone cosa significhi il suicidio per chi lo pratica ma sopratutto per chi resta.
Hanno così organizzato dei funerali per i dipendenti vivi.

Il percorso è semplice e struggente. Si parte con una breve sessione di meditazione, poi si è invitati a guardare un filmato motivazionale girato da persone con handicap o da protagonisti di storie memorabili in tema di resilienza.
Una volta visto il video, una persona completamente vestita di nero (che rappresenta di fatto l’angelo della morte) ti fa entrare nella bara e lentamente ti ci chiude dentro. È permesso portarsi nella bara solo una propria foto da stringere nelle mani.
Si resta chiusi nella bara per 10 minuti, il tempo di meditare ancora su cosa significhi morire.
Una volta usciti si è invitati a scrivere una lettera con le proprie considerazioni su quanto si è provato.
Sembra che l’esperimento funzioni in quanto i suicidi, anche se è ancora un’inizio, sembrano diminuire.
La sopravvivenza è una questione di prospettiva.
Fonte: theguardian.com